Grandi romanzi africani consigliati da blogger italiani

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Uno dei modi più facili, e anche divertenti, per scoprire la complessità del continente africano è scoprire la letteratura contemporanea: autori spesso giovani, che raccontano di grandi città e saghe famigliari, dello scontro fra tradizione e modernità, dell’esperienza della migrazione e anche del ritorno. Abbiamo chiesto a 4 blogger italiani di segnalarci i grandi romanzi africani del cuore e di prestarci le loro recensioni.

Grandi romanzi africani: “Non dimenticare chi sei” di Yaa Gyasi, Garzanti

consigliato da Francesca Crescentini alias Tegamini

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Non dimenticare chi sei è un libro ambizioso, che racconta sette generazioni di uomini e donne accomunati da un’unica matriarca ma separati dal destino – quasi mai clemente. Il grande spartiacque è l’arrivo dei bianchi in Ghana – anzi, in Costa d’Oro – agli albori della tratta degli schiavi. Dal castello di Cape Coast, una delle fortezze da cui partivano le navi cariche di prigionieri africani da vendere oltreoceano, all’America dei nostri giorni, la Gyasi ricostruisce la personalissima saga di una famiglia allargata e dispersa, alla ricerca della propria identità in un mondo che si riconfigura per istituzionalizzare il razzismo e legittimare il possesso e lo sfruttamento di un altro essere umano.

Dalle lotte tribali all’eroina che stravolge Harlem negli anni Sessanta, dalle piantagioni di cotone alle miniere di carbone, dal palazzo reale degli Ashanti ai jazz-club di New York, la Gyasi ci accompagna in un viaggio lunghissimo, incaricando i suoi personaggi – uno diverso per ogni capitolo – di farsi portavoce di una storia gigantesca e di una “questione” ancora irrisolta. Il risultato è un romanzo epico ma personale, un’indagine importante alle radici di un problema che continua ad accompagnarci, nostro malgrado.

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Grandi romanzi africani: “L’arte di perdere” di Alice Zeniter Einaudi Editore

consigliato da Ilenia Zodiaco

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L’arte di perdere (traduzione di Margherita Botto) inizia come una fiaba. Siamo nell’Algeria degli anni Quaranta, per la precisione in Cabilia, terra berbera. Un ragazzo trova nel fiume in cui ha portato i fratellini a fare il bagno un torchio per l’olio, portatogli dalla fortuna, anzi, dal maktúb, che distribuisce grazie e disgrazie secondo un meccanismo misteriosissimo. Quel ragazzo, che diventerà presto un gigante, si chiama Alì e diventerà l’uomo più ricco del paese algerino in cui vive, costruirà una famiglia numerosa e riuscirà a superare il trauma della guerra che ha combattuto a fianco dei francesi.

Eppure proprio la vicinanza ai colonizzatori – quei francesi algerini chiamati “piedi neri” – gli costerà l’inimicizia del Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) che, dopo una lunga lotta senza quartiere e dopo troppe morti, riesce a ottenere la vittoria nel ’62, facendo nascere lo Stato indipendente dell’Algeria. Alì però si troverà dal lato sbagliato della Storia, impara presto quell’arte di perdere che dà il titolo al romanzo e, costretto dalle continue minacce a cui è sottoposto, parte per la Francia, dove smetterà i panni del ricco proprietario terriero e indosserà quelli dello straniero immigrato. “Bisogna essere pazzi per opporsi al torrente. Maktúb. La vita è fatta di fatalità irreversibili e non di atti storici revocabili”.

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Grandi romanzi africani: “La bellezza delle cose fragili” di Taiye Selasi, Einaudi

consigliato da Francesca Marson alias Nuvole d’Inchiostro

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Taiye Selasi ha infatti studiato con nomi come Salman Rushdie e Toni Morrison, due dei più grandi autori di lingua inglese contemporanei ed è stata inserita dall’elitaria rivista Granta nella lista dei venti migliori scrittori al di sotto dei quarant’anni. Il titolo originale dell’opera prima di questa promettente scrittrice, Ghana must go – la frase stampata sulle borse dei rifugiati ghanesi cacciati dalla Nigeria nel 1983 – nell’edizione italiana è stato trasformato in La bellezza delle cose fragili. Stravolgimento forse fatto per non far cadere il lettore nell’errore di pensare che questo sia semplicemente un libro sull’Africa.

Il romanzo infatti è molto di più. É una poesia, un inno ai legami familiari, così fragili ma, allo stesso tempo così potenti, imprescindibili. É la storia della famiglia Sai, divisa da «chilometri, oceani, fusi orari e altri tipi di distanze più difficili da coprire», che si ritroverà, alla morte del capofamiglia, Kweku Sai, a riunirsi e fare i conti con il passato. E in una danza, un balletto tra passato e presente, Ghana e Stati Uniti, il lettore scoprirà le cause che hanno portato Kweku a morire lontano. Lontano da tutto ciò che di più bello avesse mai costruito ed infine distrutto: la sua famiglia.

Continua a leggere la recensione di Francesca Marson su “Nuvole d’inchiostro”

Grandi romanzi africani; “Culo Nero” di Igoni Barrett, 66thand2nd

consigliato da Orazio Paggi aliasi Mangialibri

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Svegliarsi bianco, quando sei un trentatreenne di Lagos dalla pelle nera come il carbone, può essere drammatico, specie se quella mattina hai un colloquio di lavoro di cui hai bisogno come il pane. La scoperta di avere un corpo bianco è per Furo Wariboko qualcosa di sconvolgente. La sua vita non potrà essere più come prima. Deve nascondersi dalla famiglia perché non scopra la sua nuova dimensione epidermica, sopportare per strada le occhiate di stupore e i risolini delle persone nel sentirlo – lui un oyibo, un uomo bianco – parlare in perfetto kalabari o in un disinvolto pidgin, convivere con brucianti eritemi provocati dal sole africano. E poi non sa cosa fare, a casa non può più ritornare, non ha né soldi né cellulare, né un posto per dormire. Ma quella che sembrerebbe una discesa agli inferi si rivela una grande fortuna. L’avere la pelle bianca permette a Furo di diventare direttore di marketing e di essere accalappiato da Syreeta, una donna affascinante e bellissima. Il giovane capisce che deve buttarsi alle spalle il passato, così non sarà più Furo Wariboko ma Frank Whyte. L’unica cosa che non può cambiare è il nerissimo sedere, segno indelebile della sua reale identità.

Continua a leggere la recensione a cura di Orazio Paggi su “Mangialibri”

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