(Questo racconto di viaggio risale all’estate 2011 ed è stato scritto da Valeria Fioretta sul suo blog personale)
Ho imparato ad amare l’Africa leggendo Karen Blixen, sdraiata sull’amaca, in un torrido pomeriggio d’agosto. NON È VERO. Ho amato l’Africa quando ho limonato furtivamente con un Kenyota su una spiaggia di Malindi, nell’aprile ’99, sentendomi una colona inglese bionda e lentigginosa. Ma soprattutto sentendo mia madre che qualche palma più in là urlava a mio padre di non comprare dagli ambulanti un’altra giraffa in finto ebano, che in casa siamo già pieni di ciapapuer*.
Un masai bello come il sole (Felix, che Dio ti benedica): ero persino riuscita a immortalarlo in una delle poche foto decenti della storia della mia adolescenza, immediatamente sbandierata con le compagne di liceo e poi incollata all’anta del mio armadio dove è rimasta finché non mi sono seriamente fidanzata nel 2005.
Quando sono tornata in Africa, si è trattato di un ripiego perché dovevo recarmi altrove, in verità. Tutto questo per dire che decisi di andare a Malika (Senegal) con una Onlus fondata e gestita da (belle) persone di mia conoscenza.
Il viaggio
Il viaggio è iniziato con un volo in grave ritardo e con la morte di Amy Winehouse: oscuri presagi, va detto, ma poi è andato tutto benissimo. Magari più avanti ripenso e riscrivo cosa ho fatto, chi ho conosciuto e come ho speso quelle 3 settimane. Possiamo sinteticamente dire che l’esperienza prevedeva un mix bilanciato di lavoro volontario (=blanda edilizia) e di viaggio/visita del Paese a bordo di un minibus Volkswagen.
30 persone, una grande casa sulla spiaggia con tante stanze condivise, l’elettricità e l’acqua corrente. Una coppia-senegalese-ora-diventata-famiglia che provvedeva alla spesa, alla cucina, alla pulizia. Un gruppo di volontari senegalesi controllava che i turisti italiani non facessero sciocchezze, un gruppo di volontari italiani controllava che i senegalesi non si facessero traviare dai turisti italiani. Nessun animale feroce, pochi topolini bianchi, qualche zanzara, tantissimi scarafaggi. Milioni di bambini. Niente alcol, droghe e dolci, molto riso.
Scoperte e pensieri
Ma oggi mi va di raccontare come il Senegal sia riuscito a farmi recuperare cose che mi erano mancate fino a quel momento. Seppur allevata al grido di “Non ci chiamiamo Onassis”, la mia famiglia di origine mi ha sempre viziata ed educata alla passione per il superfluo. C’è stato un momento in cui ho deciso di non essere il tipo di persona che sta bene con poco e di avere bisogno di molte cose per essere me stessa: i vestiti, il make-up, l’acqua calda, il materasso ergonomico, la dieta variata, lo sport, il cellulare, Internet, l’auto. Solo il Senegal ho messo alla prova le mie capacità di adattamento e gestione dello stress.
Fare vs stare
Ma ne ha guadagnato anche l’autostima: quando si finisce in un posto in cui il fare è meno importante dello stare, devi sviluppare le risorse personali per dare un senso al tempo, nei momenti in cui provi sentimenti “vuoti” come la noia, la stanchezza, il sonno. Si tratta del vuoto che in Occidente riempiamo con cose altrettanto vuote, come guardare la TV o stalkare un ex. Ma in Africa, al massimo, si può dormire, leggere, correre sulla spiaggia. Se loro ne hanno voglia e se si parla bene francese, si può chiacchierare con gli altri. Altrimenti, s’impara a stare zitti, bastarsi e guardarsi intorno, cosa che torna utilissima quando vuoi prendere le distanze.
In conclusione, se volete liberarvi dai “non farlo” della pigrizia, dai “non ti piacerà” dell’abitudine e “non sei proprio il tipo” della paura, oppure se l’idea di togliervi dalla routine e andare al caldo durante le vacanze natalizie o pasquali vi sorride, non vi manca nulla per sperimentare un viaggio con Renken Onlus.
*termine piemontese che indica soprammobili kitsch di scarso valore commerciale e destinati a coprirsi di polvere